Asmara come ogni domenica si presentava al meglio, con le vie del centro gremite da passanti e  bar affollati da avventori intenti a sorbire tè, caffè e cappuccino accompagnati da ottime brioche e paste, secondo la tradizione italiana. Il viaggiatore arrivato in cima all’altipiano avrebbe visto case che formavano una tavolozza di colori della terra, dall’ocra al sabbia, senza un ordine apparente, con strade delimitate da palme, su cui si affacciavano negozi e botteghe. Dopo le prime case semplici si sarebbe sorpreso dei palazzi governativi, della residenza imperiale ma anche del cinema, del grande ufficio postale e delle splendide ville nel quartiere europeo, testimonianza del periodo coloniale e dell’importanza della città, per un certo periodo capitale dell’Africa Orientale Italiana. Il corso principale era viale della Liberazione e qui le persone sfoggiavano lineamenti delicati, zigomi alti e labbra sensuali, sulla pelle tutte le sfumature del rosa, del marrone, del beige fino al caramello intenso e al cioccolato. I vestiti erano colpi di colore agitati dalla brezza, turbanti scomposti da raffiche improvvise ma anche ombrellini di pizzo e abiti occidentali degli ex coloni e dei turisti che giungevano dal porto di Massaua.

Il Paese era libero dai coloni da oltre dieci anni e l’imperatore Hailé Selassié I avanzava verso il progresso a passi leggeri e cauti, per evitare le molte trappole della politica mondiale e le tagliole dell’aristocrazia, minacciata dalla brezza liberale che soffiava dal Mediterraneo.

La gente viveva in un clima sereno, fianco a fianco ai pochi coloni rimasti: i caffè centrali, le abitudini del biliardo, della passeggiata domenicale dopo la Messa e del dibattito al bar erano ormai tratti comuni a tutti i sessantenni di Asmara, qualunque fosse la loro provenienza. Giunti davanti al Bar Commercio, nell’ex Viale della Regina, si poteva scegliere se accomodarsi oppure proseguire ancora un centinaio di metri, girare a destra e poi ancora a sinistra, all’angolo della buganvillea: non si poteva sbagliare, la cascata fucsia saliva da terra fino a un terrazzo al primo piano e abbracciava un uscio in legno dipinto di azzurro recante la scritta “Caffè” in tigrino, italiano e arabo. Qui si gustava il vero caffè eritreo preparato da nonna Alganesh. La famiglia era composta da lei, dal marito Tedros, dalle figlie Eden e Alem, giovane vedova e madre del piccolo Biniam di pochi mesi; il marito di Alem, un medico etiope, era perito un anno prima lasciandole un figlio e un mare di lacrime salate. Dopo il lutto la famiglia si era stretta attorno al nucleo originario: i due nonni, che ancora lavoravano e mantenevano decorosamente tutta la famiglia. Quello che era un rito familiare, la preparazione del caffè secondo tradizione, era diventato da tempo un lavoro e sul terrazzo della buganvillea c’erano tavolini, sedie, lampade dai vetri colorati e incensi arabi. Nonna Alganesh amava raccontare di quei giorni in cui stava accendendo la brace per preparare il caffè, quando aveva sentito bussare alla porta e aveva trovato un drappello di stranieri stanchi e impolverati che cercavano un buon caffè: la nonna, all’epoca attraente trentenne, non si era intimorita e li aveva fatti accomodare. Circondati dai fiori e rapiti dai gesti eleganti di Alganesh, gli stranieri erano rimasti in silenzio ad ammirare la sequenza antica della cerimonia del caffè: la padrona di casa aveva alimentato il braciere per mantenere alta la fiamma, aveva tostato i chicchi ancora verdi in un pentolino di ferro sulla brace; aveva quindi portato il pentolino davanti a ogni ospite, in segno di rispetto, perché potesse annusarne il profumo inebriante. Aveva poi pestato il caffè nel mortaio con mano sicura, mentre l’incenso spargeva il suo profumo, e aveva aggiunto alla polvere di caffè cardamomo e zenzero, versando poi la mistura aromatica in un vaso panciuto di terracotta dal collo stretto, la jebenà. Vi aveva versato acqua bollente e aveva posto il vaso direttamente sulla brace ardente, perché l’acqua unita alla polvere di caffè aromatizzato arrivasse a ebollizione. Aveva infine versato il caffè, dall’alto, in piccoli bicchieri, senza farne uscire neanche una goccia, e li aveva offerti agli ospiti, accompagnandoli con anice e pop corn. Mentre gli ospiti sorbivano il caffè all’ombra della buganvillea in uno stato di beatitudine, Alganesh aveva ricominciato tutta la sequenza, perché la tradizione voleva che il caffè venisse offerto, e bevuto, tre volte. Intanto aveva narrato loro con voce suadente la leggenda eritrea della scoperta del caffè. 

“Molto, molto tempo fa, tre sapienti eritrei videro che, di un numeroso gregge di capre, quelle che si cibavano di strane drupe rosse erano particolarmente arzille. Incuriositi, anche i saggi decisero di assaggiare quei frutti ma il sapore fu così cattivo che li gettarono nel fuoco. Qui, il caffè ancora acerbo, si tostò sulle braci e sprigionò il suo aroma eccezionale: i saggi capirono quale era il giusto modo di consumarlo. Nacque così il caffè e, da allora, in tutto il corno d’Africa si beve per tre volte in onore dei tre saggi”. 

Terminato il racconto, il caffè era finito e gli stranieri si resero conto che dovevano recarsi con premura a un appuntamento. Si profusero in ringraziamenti e complimenti, lasciarono sul tavolo quello che secondo loro era il conto e se ne andarono felici. Fecero una tale pubblicità che il terrazzo della buganvillea assurse a meta per eccellenza di tutti gli amanti del caffè tradizionale e divenne a tutti gli effetti una caffetteria. Vent’anni dopo la famiglia prosperava con la caffetteria e la compravendita di caffè. Il nonno Tedros sapeva scegliere i raccolti migliori, nonna Alganesh era ancora la maestra indiscussa della cerimonia del caffè, aiutata dalla figlia Alem. La seconda figlia Eden, aveva studiato ed era diventata così brava a trattare in tigrino, arabo e italiano da affiancare il padre negli acquisti.

“Ti chiamerà persino l’imperatore per scegliergli il caffè!” le diceva sempre Moses, un anziano commerciante, cliente abituale della caffetteria. L’uomo amava raccontare storie del deserto, di uomini blu e spiriti del vento e della sabbia e portava con sé Kokeb, una bambina muta, di 7 o 8 anni, che raccontava di aver trovato una notte stellata sotto una palma da datteri in mezzo al deserto. Certe sere, quando sul terrazzo non c’era più nessuno e la luce arancione del sole calante baciava le mille labbra fucsia della buganvillea, Kokeb intonava con il flauto un canto lento, di struggente bellezza e le note volavano lontano per le vie di Asmara, oltre le ville coloniali, scansavano le palme, giù per le strade polverose fino alle lamiere ondulate e le assi di legno grezzo del quartiere povero. Forse la bambina veniva da lì, forse era figlia di una prostituta che era rimasta incinta di un cliente europeo o forse era davvero figlia del deserto o delle stelle: aveva pelle color ambra, profondi occhi neri e capelli castani chiari e ondulati. Nessuno sapeva perché non parlasse, ma Eden e Kokeb comunicavano con lo sguardo e si intendevano alla perfezione. I coniugi Tedros e Alganesh avevano accolto con piacere quella discreta presenza silenziosa, accettando con tranquillità il suo mutismo e trattandola come una seconda nipote. 

Le giornate sul terrazzo della buganvillea trascorrevano veloci nella lentezza della cerimonia del caffè e erano scandite dall’andirivieni dei molti avventori, dai pasti in famiglia e dalle funzioni religiose domenicali, dopo le quali la caffetteria restava chiusa.
Quel lunedì sera la luna, conchiglia perlacea nel cielo violetto, era apparsa presto, mentre Eden e il padre erano di ritorno da una piantagione dove avevano siglato un ottimo accordo per entrambe le parti. Portavano con loro un piccolo trofeo: un sacco di caffè verde di prima qualità da regalare a Alganesh. Nonostante tostasse caffè tutti i giorni, mamma Alganesh beveva solo il caffè preparato dal marito, dicendo che era una tradizione di famiglia che il marito preparasse il caffè.
Eden aveva già ventitré anni ma a differenza della sorella sembrava non essere interessata a fidanzarsi o sposarsi: non ancora, sperava la madre; non più, si augurava segretamente il padre: sebbene fosse un uomo di cultura tradizionale, aveva scoperto da anni il talento della secondogenita e accettava con naturalezza che la guida dell’attività di famiglia stesse passando gradualmente nelle sue capaci mani. Una coppia di industriali italiani rimasti a Asmara anche dopo la fine del periodo coloniale portava spesso a Eden libri in italiano di arte, storia, letteratura e la giovane donna li leggeva sempre con attenzione e curiosità. Quella sera, giunta alle porte della città con il pregiato caffè verde nel sacchetto, Eden chiese infatti al padre di fare una breve sosta a casa dei Monforti. Scesa dall’auto, vide gli italiani sulla soglia che salutavano con visi seri un funzionario imperiale e, mentre il padre la aspettava in giardino fumando un po’ di tabacco aromatico, Eden seguì i coniugi all’interno della casa.

“Eden, figliola, notizie funeste”, esordì la signora Margherita. “Il funzionario che è appena stato qui ci porta cattive notizie: sembra che il regno di Hailé Selassié sia in pericolo e che nell’ombra stiano tramando potenti personaggi legati all’esercito”.

“Non capisco, in che senso il regno dell’imperatore è in pericolo? Com’è possibile?” balbettò Eden sconvolta.

“Cara, non puoi immaginare quali lotte scateni il potere e a quali bassezze possa arrivare l’uomo per ottenerlo”, aggiunse il signor Emanuele.

“Domani andremo a parlare con i consoli europei a Addis Abeba. Per ora non dire niente a nessuno, tranne che a tuo padre e vai a casa subito. Torna fra due giorni e ti diremo tutto quello che avremo scoperto”, le disse a bassa voce il signor Emanuele, mentre la moglie stringeva forte le mani della ragazza, che per loro era come una nipote. 

“Potrebbe essere un falso allarme, ma anche l’inizio di un colpo di Stato. Potremmo perdere tutto e dover addirittura scappare in Italia. Per sicurezza, chiedi a tuo padre di ritirare tutto il denaro che può dalla banca senza destare troppi sospetti”, aggiunse la signora Margherita.

Si salutarono con più calore del solito e Eden raccontò tutto al padre che, dopo aver ascoltato la figlia, commentò:

“Gli italiani hanno ragione, un colpo di Stato potrebbe cambiare tutto e metterci in pericolo. Non facciamone parola con nessuno, né a casa né tra gli amici, ma teniamo occhi e orecchie aperti e aspettiamo notizie. Che Dio ci aiuti”.

Due giorni dopo i tavolini della terrazza erano tutti occupati, l’attività ferveva e solo verso sera Eden si ricordò che doveva andare a casa Monforti per avere notizie: né lei né il padre avevano notato nulla di strano in città, con la sola eccezione che il vecchio commerciante Moses e Kokeb non si presentavano da alcuni giorni, cosa strana per due habitué come loro.

Per strada si udiva il canto nostalgico del muezzin che chiamava i fedeli musulmani alla preghiera e, mentre le sue parole fluttuavano nel morbido cielo serale e i venditori richiamavano gli ultimi clienti alle bancarelle, arrivarono al quartiere europeo. Il cancello era aperto, ma in cortile tutto era immobile, in casa Monforti non c’era anima viva; decisero di riprovare l’indomani.

Mentre uscivano dal vialetto dei Monforti, Eden e il padre si accorsero però che tutta la via era in movimento, troppo movimento per quell’ora di riposo: quasi tutte le ville avevano le auto parcheggiate davanti casa e dalle finestre si potevano vedere uomini, donne, bambini e domestici affannarsi nelle varie stanze illuminate. Sarebbe stato divertente osservare tutti quei personaggi che come marionette si muovevano affannati, se non ci fosse stato qualcosa di sinistro e sbagliato, qualcosa di stridente nella loro fretta. Tutte quelle persone sapevano qualcosa di brutto, qualcosa che li aveva spaventati e che aveva messo loro una gran fretta di fare le valigie.
“Gli stranieri sono spaventati ma non è detto che capiti il peggio”, disse fermo il padre. “Ogni immigrato in terra straniera sa che, quando ci sono problemi, può perdere tutto in un attimo. Questa è casa nostra, Eden, e nessuno ci può cacciare”.

Invece che andare subito a casa, il padre deviò per il caravanserraglio, il luogo del mercato, perno dell’economia e del commercio cittadino: qui Tedros era rispettato e conosciuto, tutti lo salutavano e si parlava ancora di alcune sue celebri trattative. Chiese alla figlia di restare in auto ad aspettarlo mentre parlava con un suo amico di vecchia data, un commerciante di tappeti pregiati che aveva contatti in tutto il nord Africa. Di ritorno, non volle svelare nulla alla figlia ma rispose alle sue domande: “Lascia fare a questo vecchio commerciante il suo gran finale”.

Nei giorni seguenti regnava in città una calma apparente ancora più snervante del panico conclamato: quasi tutti gli stranieri erano partiti e si avvertiva nell’aria una tensione elettrica, come quella che precede un temporale. In casa di Eden si era parlato del problema e si era deciso di comune accordo di seguire i consigli dei Monforti, senza però interrompere le attività. Si mormorava che l’imperatore non fosse più in carica e fosse imminente un grande cambiamento. Finalmente tornò al caffè il vecchio Moses con la piccola Kokeb. Appariva stanco per il suo ultimo viaggio e si accomodò al suo solito tavolino, facendo cenno a Eden di sedersi con loro.

“Torno da Addis Abeba e ti porto notizie dagli italiani, notizie che non potevano essere affidate alla carta ma solo alla voce. Mandano a dire che tutti gli stranieri hanno ricevuto l’ordine di partire e rientrare immediatamente, perché l’imperatore Hailé Selassié I è scomparso, forse ucciso, e sta per scoppiare una rivolta armata dell’esercito. Gli italiani non hanno potuto nemmeno tornare a prendere le loro cose, ma dicono che se riuscite a espatriare, sono pronti a accogliervi a Roma in qualsiasi momento. Questa è la chiave di casa loro, che mi hanno pregato di consegnarti. Dentro troverai del denaro e il loro recapito di Roma, scritto sui documenti e sui visti di espatrio”. Con queste parole, sussurrate a bassissima voce, Moses le fece scivolare in mano la chiave.

“Non la voglio, non voglio andare da nessun parte!” rispose d’istinto Eden, respingendola. 

“Non essere stupida. Non sai cosa potrebbe succedere. Tu e tua sorella siete sempre vissute in pace, non sapete cosa siano la guerra, la fame o la miseria. Fai come ti hanno detto, vai in quella casa di bianchi e prendi ciò che ti è stato donato: potrebbe essere un dono più grande di quello che sembra”, le intimò serio Moses e aggiunse con lo sguardo più triste che gli avesse mai visto: “Solo promettimi che la tua buona stella sarà anche quella di Kokeb. Se dovesse accadermi qualcosa, giura, giura che terrai la bambina sempre con te” e le chiuse la mano sulla chiave fredda.

Le strade erano sempre meno frequentate da civili e si vedevano ovunque camionette militari o drappelli di soldati armati e dallo guardo cattivo. La notizie ufficiali da Addis Abeba dicevano che l’imperatore si appoggiava allo statista Menghistu ma la verità era che il Paese era in mano all’esercito. Notizie di perquisizioni, di squadre militari pronte a picchiare e arrestare gli oppositori al Derg, la giunta militare: eventi puntiformi che, collegati, cominciavano a disegnare una cupa costellazione.

“Padre, si mormora che l’esercito abbia preso il potere: cosa faremo?” chiese Eden in preda alla preoccupazione. 

“Questa è casa nostra, la nostra terra e non abbiamo mai fatto niente di male. Rimaniamo qui e continuiamo a fare la nostra vita e il nostro lavoro”, sentenziò il padre. Lui e la moglie ne avevano parlato per notti intere, da quando le cicale smettevano di frinire fino a quando i primi uccelli innalzavano al cielo ancora buio il loro canto. Erano preoccupati per le sorti di tutti loro ma non credevano nella fuga all’estero, né la desideravano: erano fieri di essere eritrei, della loro bella famiglia e della loro fiorente attività. La famiglia si era stretta ancora di più attorno alle proprie radici e ai propri valori e aveva deciso compatta di affrontare il futuro incerto: la caffetteria sarebbe rimasta aperta. Eden e sua sorella Alem avevano ripreso l’abitudine di quando erano piccole di dormire insieme e si alzavano entrambe quando il piccolo Biniam cercava il seno della madre o una carezza per riaddormentarsi.

“Tu non hai paura? Cosa succederà adesso?” si chiedevano a notte fonda, quando gli incubi strisciavano appena fuori dalle loro imposte e sembrava impossibile che di lì a qualche ora il sole sarebbe tornato a sorgere, spazzandoli via. Ma quella mattina neanche il sole fu sufficiente.

L’imperatore era morto. Il Derg aveva il pieno potere. Durante uno dei suoi discorsi del terrore Menghistu aveva rotto tre bottiglie di sangue umano davanti alla folla, per dimostrare le sue intenzioni. Notizie terribili giungevano a singhiozzo dalla capitale, tramite commercianti itineranti e informatori dell’opposizione, che speravano in una reazione della popolazione atterrita e pacifica. Si raccontava di terribili rappresaglie verso chi si fosse opposto al Derg, di arresti, pestaggi, omicidi e cadaveri lasciati a marcire per le strade di Addis Abeba. 

Nella bella Asmara era stato istituito un presidio locale dell’esercito, che controllava il mercato, le trattative, le scuole, le attività ricreative e ogni aspetto della vita sociale: tra gli abitanti si andava ormai insinuando il dubbio, la paura per il futuro e il disperato desiderio di essere tra i privilegiati di questa nuova era di paura. Piccole invidie e antichi risentimenti diventavano pretesto per segnalare al Derg i vicini di casa o i concorrenti nel proprio ramo commerciale e tanto bastava, un’insinuazione, per far partire una squadra della morte verso una famiglia innocente.

Quella domenica, come d’abitudine, la famiglia si era recata a Messa nella cattedrale cattolica e si era poi riunita in terrazza; erano invitati a pranzo anche Moses e Kokeb. Un desinare semplice per cercare di ristabilire un po’ di normalità in quelle giornate segnate dalla paura, da affari sempre più scarsi e clienti sempre più prostrati dalle circostanze. I tradizionali zurià bianchi di cotone garzato svolazzavano al vento dell’altopiano mentre la famiglia finiva di consumare il pranzo e Alem cullava Biniam. Nonna Alganesh, come di consueto, guardava con amore il marito che metteva il caffè verde a tostare sulla brace e Kokeb si mise a suonare per loro. La bambina soffiò nel suo strumento, facendo scaturire note dolci e levigate, baci di madre per il bimbo, carezze dell’amata per l’amante, abbracci filiali per gli anziani genitori. Ad un tratto però si udì un piccolo tonfo e sulla terrazza cade morto un uccellino. La bambina interruppe bruscamente il suo concerto e, scattata in piedi, attraversò di corsa la terrazza e scappò agile sui tetti della case vicine, scomparendo dalla vista.

“Povera bambina, è tutta la paura che si respira in questi giorni, è così sensibile”, sospirò nonna Alganesh.

“Vado a parlarle io”, si offrì Eden. “In questi giorni siamo tutti esasperati” e si avviò verso i tetti assolati. 

Dovette cercare molto e la trovò nascosta dietro a alcuni cesti intrecciati, raggomitolata su se stessa come un animaletto. La abbracciò dolcemente e le mormorò parole di consolazione per calmarla, ma la bambina rimaneva rigida, distante, cercò di condurla indietro prendendola per mano, ma la bambina si divincolò, proprio lei che non aveva mai osato contrariare nessuno, e con una forza sovrannaturale per quelle esili membra, costrinse Eden ad accovacciarsi con lei nel cumulo di cesti e le coprì le orecchie con le manine.

Uno, due, cinque, dieci spari riverberarono vicinissimi, suoni violenti che squarciarono la fragile protezione delle orecchie di Eden, che strinse la bambina al petto e rimase immobile, puro istinto di animale braccato. Si udirono voci aspre, risate e poi il rumore di vasellame in frantumi e oggetti di metallo buttati a terra. Il tempo si fermò e la madonna con bambina furono immobilizzate in un attimo eterno in quella posa plastica, innocenti per l’ultima volta. 

Un cesto cadde dalla catasta e gli eventi ripresero a fluire, le pupille dilatate si incontrarono e le mani intrecciate così forte da far male allentarono la stretta, mentre Eden e Kokeb uscivano dal loro nascondiglio di giunchi intrecciati. Tornarono indietro con passi esitanti, tenendosi sempre per mano. Sulla terrazza c’era sangue dappertutto: sangue sul pavimento, sangue sui muri, sangue sui tavoli e sangue che si allargava in ampie chiazze purpuree sulle vesti garzate di sua madre, sua sorella e Moses. La bambina si sciolse dalla stretta e corse dal vecchio padre adottivo, piangendo ancora una volta senza parole e abbracciando il corpo ormai esangue. Eden rimase impietrita con gli occhi spalancati, che non potevano aprirsi abbastanza per cogliere tutto quell’orrore, e si chinò sull’amata madre, la bella Alganesh, che giaceva morta, colpita da diversi proiettili al petto e al fianco, con la mano protesa verso l’amato Tedros. Si udì un verso rauco e la mano del padre si mosse appena: la figlia fu subito da lui.

“Eden… Eden”, riuscì a bisbigliare. “Scappa. La morte è qui. Vai…mercato…tappeti, lui ti aiuterà”.

“Padre, non capisco… Padre!” singhiozzò Eden, abbracciandolo. “Adesso chiamo un medico e ti guariremo. Padre, perché?”

“Vai, cuore mio. Mercato…tappeti…mio gran finale”, disse, spalancando gli occhi in quelli pieni di lacrime della figlia e la lasciò per sempre. Anche sua sorella Alem era stata trucidata, con le vesti sollevate in modo osceno a testimoniare la bramosia scellerata dei soldati, colpita alle spalle mentre proteggeva il suo bambino, la luce dei suoi occhi, lacerato dallo stesso proiettile che aveva fermato il cuore della madre. 

Mentre la polvere danzava nei raggi di sole che, spietati, illuminavano la scena in tutta la sua raccapricciante assurdità, una mosca si posò sul sangue ancora fresco sul viso di Alganesh e fu quel movimento impercettibile a fare detonare la furia che esplose nel cuore di Eden. In un attimo la paura e la disperazione furono sostituite da un’acuta percezione delle cose intorno a lei: i minuscoli passi della mosca, l’aria calda nei polmoni, il riflesso del sole sui cocci infranti della jebenà. La sua decisione fu immediata: con uno sforzo disperato voltò le spalle a tutta quella morte, alla distruzione del suo nido sicuro e scelse la vita, per sé e per la bambina. Prima che gli assassini potessero tornare, allontanò dolcemente Kokeb dal cadavere di Moses, la prese in braccio e, senza dire addio alla sua vita stralciata, mise in una sacca poche cose necessarie, tutti i soldi che aveva, i documenti, alcune vesti di ricambio e quel sacchetto di caffè verde pregiato che tanto aveva fatto felice sua madre. 

Al mercato si diresse decisa dall’amico del padre, il venditore di tappeti con cui Tedros aveva misteriosamente conferito pochi giorni prima: all’anziano uomo d’affari bastò un’occhiata per capire che era accaduto l’irreparabile e fece subito nascondere la giovane donna e la bambina nel suo bazar. Porgendo loro dell’acqua fresca, rivelò quella che era stata l’ultima magia di Tedros, che aveva saputo mercanteggiare anche con la morte.

La jeep correva veloce sulla strada sterrata, i lembi delle vesti schioccavano al vento e una scia di polvere si alzava alle loro spalle, nascondendo la vista di Asmara che si allontanava sempre più. La famiglia di Tedros era conosciuta in tutta la città e i soldati si sarebbero presto resi conto che mancava una figlia all’appello, per di più quell’irritante donna che aveva studiato e voleva fare un mestiere da uomo. Eliminare quell’ultima dissidente sarebbe stato logico e scontato.

Ma Eden non era l’unica donna a essersi fatta notare per aver osato esprimere la propria abilità: la figlia del mercante di tappeti, la timida Meron, si era dimostrata talmente portata per la matematica che le suore del collegio femminile dove si era diplomata avevano insistito perché studiasse economia a Addis Abeba. Ma dopo il colpo di Stato, quando le strade si erano tinte di rosso e si doveva far finta di non vedere i cadaveri, il padre aveva fatto rientrare Meron a Massaua dove, nonostante la sua indole garbata e decorosa, era stata additata come irrispettosa e dissidente, colpevole di essere troppo istruita. 

Così il previdente Tedros aveva stretto un’alleanza con il suo vecchio amico commerciante: in caso di disgrazia, quello dei due che fosse sopravvissuto, avrebbe messo in salvo entrambe le famiglie in Italia. Il piano era perfetto, entrambi i contraenti avevano partecipato in ugual misura, giurando sul loro onore e mantenendo il patto. Su quell’auto lanciata a tutta velocità verso il deserto c’erano le uniche superstiti di due famiglie un tempo fiorenti, spazzate via dalla furia insensata del Qey Shibir, il terrore rosso voluto da Menghistu per riformare l’Etiopia e l’Eritrea. Il padre di Meron aveva onorato il patto e aveva organizzato la loro fuga, predisponendo un percorso sicuro attraverso il Sudan fino all’Egitto, dove avrebbero potuto prendere un aereo per l’Italia all’aeroporto di Luxor. Lui era stato irremovibile: anziano, vedovo e malato sarebbe rimasto fino alla fine, ma voleva che la figlia avesse un futuro in Italia. In Sudan avrebbero cambiato guide, a Luxor avrebbero ricevuto nuovi documenti e avrebbero quindi percorso l’ultimo tratto da cittadine egiziane. La presenza di Kokeb, che viaggiava stretta a Eden, non sarebbe stato un problema perché sarebbe stata segnata sul suo nuovo documento in qualità di figlia, previo il pagamento di una cifra aggiuntiva di cui fortunatamente disponevano.
Il Sahara le travolse senza dar loro il tempo di abituarsi: immenso, gigantesco, un avversario troppo grande con cui confrontarsi; potevano solo sperare che avesse pietà di loro e le lasciasse passare illese. Le giornate interminabili, dolore ai muscoli e alle ossa, la lingua e gli occhi secchi per l’arsura e le labbra tagliate dalla sabbia sferzante, le due donne e la bambina avanzavano con feroce determinazione, cercando di rifocillarsi ad ogni sosta e facendo il possibile per non smarrire in quell’immensità il motivo per cui erano partite. Avevano imparato a conoscersi durante le gelide notti desertiche e la combinazione tra la forza e l’intraprendenza di Eden e la capacità di analisi e la modestia di Meron erano perfettamente complementari, infondevano loro fiducia reciproca e rappresentavano l’unico appoggio per la piccola Kokeb, delicato bocciolo di vita che rischiava di essere bruciato sul nascere. A Eden erano tornati in mente terribili racconti di donne rapite e stuprate duranti viaggi nel deserto, vendute come schiave o rapite da drappelli di soldati senza onore e per questo sorvegliava sempre ogni movimento delle due nuove guide, che dopo cinque giorni di marcia forzata al confine tra Sudan e Egitto avevano dato il cambio ai due uomini eritrei con cui erano partite. Non si fidava di quegli uomini ed era consapevole che più si allontanavano dall’Eritrea, meno valeva la protezione del padre di Meron, che pure aveva organizzato i pagamenti in modo da assicurare il loro arrivo a Luxor. La catena, tanto accuratamente inanellata dai due padri, si infranse una sera a causa della violenza e della bramosia maschile. Le due giovani donne stavano parlando in tigrino dell’ultima tratta di viaggio che le separava da Luxor quando Kokeb, dopo molto tempo, aveva riportato alle labbra il suo flauto, dando vita a una melodia dedicata al deserto e al cielo stellato: le note si alzavano timide e prendevano corpo, tramutandosi in un canto di speranza e di rinascita. Ma la musica e l’alcool avevano eccitato il più arrogante dei due autisti, che aveva abbracciato Eden e aveva cercato di costringerla a baciarlo e danzare con lui; la musica si era interrotta, ma non le insistenze dell’uomo: irritato dal rifiuto e smanioso, aveva deciso di passare alla violenza, ma una lama fredda sulla gola l’aveva fermato. La delicata Meron aveva estratto un pugnale dalla manica e con rapidità fulminea aveva difeso l’amica, risolvendo anche la situazione in maniera eccellente: aveva detto a Eden in un perfetto arabo di legare l’uno all’altro i due uomini e aveva ordinato loro di salire sul retro della jeep e tacere, se non volevano essere abbandonati nel deserto.

Per fortuna Eden, che aveva imparato a guidare durante i suoi spostamenti di lavoro con il padre, riuscì a condurre l’auto per tutta la notte, accompagnata dal flauto di Kokeb, che aveva ripreso a suonare una melodia nostalgica, e dalle poche parole che scambiava con Meron. Le era sembrata una docile studiosa e invece l’aveva sorpresa, salvandole la vita con una fermezza degna di un veterano del deserto: in quella giovane donna dalle mani affusolate e dalle movenze leggere c’era molto più di quello che appariva e Eden era sempre più desiderosa di scoprirlo. Aveva sempre pensato di essere diversa, di essere una donna troppo moderna per trovare qualcuna come lei e invece eccola qui: in fondo al pozzo della disperazione aveva trovato una compagna che la sorprendeva ogni giorno. Pensò di non essersi fatta notare, ma quando mise la mano sul tremolante pomello del cambio per scalare la marcia, la mano calda di Meron aderì alla sua.

L’alba si affacciò all’orizzonte, facendo arretrare la notte e disegnando all’orizzonte i primi tetti di Luxor, capirono che erano arrivate alla fine dell’ultima tratta, e che erano riuscite in una grande impresa, per di più senza investire nessun ciclista né urtare i molti calessi trainati da asini e guidati da vecchini sdentati. I due autisti, irrigiditi dal freddo e sotto la minaccia della lama di Meron, rivelarono il luogo d’incontro con i falsari di documenti e le due donne li lasciarono imbavagliati e legati all’auto e si avviarono verso la zona del mercato giornaliero, cercando di non far sentire a Kokeb quanto tremassero loro le mani. Per sicurezza si coprirono accuratamente il capo con il velo, per confondersi con le donne egiziane, e mentre Meron le fermava il velo dietro le orecchie, la bambina la abbracciò stretta e riprese a camminare solo dopo aver dato una mano a ognuna delle due, riportando un pizzico di normalità familiare a quella fuga dalla morte.

“Ce la faremo, Kokeb, noi tre insieme siamo speciali e arriveremo sane e salve in Italia”, la rincuorò Meron e, mai come in quel momento, Edem si rese conto che non era più una ragazza o una figlia, ma era diventata a tutti gli effetti un’adulta responsabile di altre due vite, che ora le erano preziose sopra ogni cosa e che avrebbe protetto con tutte e sue forze, come suo padre aveva fatto con lei. Il mercato era una baraonda di colori, suoni, profumi, odori pungenti e grida di venditori che invitavano all’acquisto di carne, pesce, frutta, verdura, pietre pomici, spezie e utensili di ogni genere. Le donne indossavano jilbab neri e camminavano tenendo in equilibrio sul capo cesti e sacchi strapieni e gli uomini con la kefiah si spintonavano tra carrelli e asini in mezzo alla strada.

Arrivarono nei pressi del bazar, dove avrebbero potuto acquistare i loro nuovi documenti per l’espatrio, ma due donne sole con una bambina che trattavano con mercati egiziani avrebbero dato troppo nell’occhio e Edem propose questa soluzione: Meron e Kokeb avrebbero comprato alcuni articoli necessari per il viaggio, dopodiché l’avrebbero aspettata a un tavolino della piccola caffetteria. 

“Perché vuoi andare da sola, Eden? Potrebbe essere pericoloso?” 

“Fidati di me, Meron. Sono abituata a trattare e tornerò tra pochissimo con quei documenti”, disse Eden e sparì tra la folla, impugnando il suo sacchetto di caffè verde. 

Sedute al tavolino del caffè, la giovane donna e la bambina con il flauto guardavamo nervosamente il flusso ininterrotto di merci, cercando qualcuno, aspettando trepidanti.

Meron non riuscì più a tollerare l’attesa snervante e, dopo aver pagato il conto, prese per mano Kokeb e decise di entrare nel bazar in cerca di Eden. Cosa poteva esserle successo? Un’altra aggressione? La polizia? All’interno del negozio la luce era smorzata e oltre le file di narghilè e i cuscini ricamati, vide tre uomini che parlavano tra loro e bevevano da piccoli bicchieri fumanti. Meron fece un passo verso la macchia di luce al centro del bazar e gli uomini tacquero, accorgendosi della una nuova presenza. Uno degli uomini si alzò e venne verso di loro e la giovane donna si preparò ad estrarre ancora la lama.

“Meron, habibi, questi gentili signori hanno voluto provare il nostro caffè alla maniera eritrea”, le disse l’uomo sconosciuto. “Si è fatto tardi e ora mia moglie e mia figlia mi reclamano. Grazie di tutto e Inshallah” e si accomiatò dai due egiziani.

Un lieve sorriso increspò le belle labbra di Meron e quando furono uscite anche Kokeb comprese il mistero, mentre una Eden in abiti maschili porgeva loro i nuovi documenti, intestati a un marito e una moglie egiziani con bambina.

“Vuoi… vuoi che formiamo una nuova famiglia insieme?” chiese esitante Eden.

A risponderle fu per la seconda volta la mano calda di Meron sulla sua e la famigliola poté avviarsi all’aeroporto di Luxor, mentre uno dei due egiziani, sulla soglia del bazar commentò: “Strano, però! Un eritreo che fa il caffè al posto della moglie…”.

E l’altro rispose pacato: “Tradizione familiare”.

 

 

 

Racconto partecipante al XV concorso nazionale di narrativa Moak.