Il giardino dell’ospedale era sprofondato nel buio notturno e si era alzata una fitta nebbia lattiginosa che odorava di acqua e inzuppava le scarpe.

Il vialetto di ghiaia bianca balenava nel buio e conduceva, dopo alcune svolte tortuose, come a volerla pietosamente nascondere, alla camera mortuaria. Il portone era sprangato, per tener fuori o tener dentro, ma dai vetri a piombo si scorgeva un tenue chiarore elettrico.

Alla fioca luce della lampada da tavolo, che arrivava appena a illuminare i caratteri del tomo di patologia, un giovane era chino sul libro come se ne aspirasse il contenuto, più che leggerlo.
Nell’atrio della camera si gelava, non c’era riscaldamento per non arrecar danno alle spoglie; i giovani studenti di medicina dovevano prestarsi a turni di guardiania notturna.

Il giovane signor Bergomi, non ancora Dottore in medicina, aspirava ad aggiungere il titolo al proprio nome entro due anni, nel 1978, e spremeva occhi e meningi cercando di memorizzare infinite nomenclature anatomiche mentre, tremando dal freddo nel giaccone di lana, batteva i piedi sul pavimento. 

Era la sua prima esperienza di guardiania notturna e aveva i nervi a fiori di pelle. La data poi non aiutava: venerdì 13 novembre, con le feste dei Morti appena passate e gli frenati scherzi goliardici in facoltà. Quando aveva iniziato il suo turno, presentandosi in largo anticipo sulla mezzanotte per ricevere istruzioni, aveva trovato due compagni di studio al piano di sotto, in sala autopsie.
La sala era una grande stanza circolare con un lettino in acciaio al centro e l’occhio del giovane studente era stato subito catturato da una campanella in ottone che rifletteva la luce della lampada notturna. Cogliendolo di sorpresa, i due giovani gli avevano messo tra le braccia il cadavere di una donna elegantemente vestita, schiamazzando di ballarci un valzer. 

La donna era rigida e fredda, bella anche nel rigor mortis. Emanava un lieve odore di disinfettante e i suoi lunghi capelli chiari gli avevano sfiorato una guancia. Capelli che avrebbero continuato a crescere anche nella bara.

Furioso, il signor Bergomi l’aveva adagiata sul tavolo anatomico con delicatezza e, con violenza, aveva spinto a terra uno dei due stolidi compagni di studio. Non sopportava i soprusi, sotto nessuna forma.

– Era solo uno scherzo! Che fai Bergomi? – aveva esclamato il compagno finito a terra.
– Non temere, hai fatto colpo! Adesso hai una bella innamorata, un po’ fredda, forse! – l’avevano canzonato ridendo, andandosene come nulla fosse.

Ancora col batticuore, il signor Bergomi era risalito, aveva chiuso il portone a doppia mandata ed era poi ridisceso in punta di piedi a controllare: la salma della donna era sdraiata sul tavolo, composta e coperta dal lenzuolo bianco. Tutto era gelido e immobile. 

Risalito alla scrivania nell’atrio, si era preparato per la notte di veglia e di studio. Erano gli anni Sessanta, non temeva ladri di cadaveri sfuggiti dalla pagine di Stevenson ma il dovere di un medico era anche sorveglianza e lui l’avrebbe svolto nel migliore dei modi, come tutto quello che faceva. Le salme erano ritenute ancora delle persone e, come tali, andavano rispettate.

Le ore passavano lente come gli strati di nebbia che coprivano i prati, le parole rotolavano una sull’altra, si fondevano, scivolavano, ondeggiavano e la testa era così pesante che sarebbe bastato appoggiarla solo un attimo, un attimo solo, per sentirsi meglio.
Dormì quelli che gli parvero cinque minuti ma, quando si svegliò col cuore in gola per un sogno che non ricordava, vide che erano le 3:10. Aveva dormito più di due ore.
Si stropicciò la faccia e si mise a camminare in cerchio ruotando le braccia per stimolare la circolazione e scaldarsi. 

Fu allora.

Mentre ruotava le braccia come un nuotatore a secco, udì un suono inaspettato. Pensò di essersi sbagliato, si bloccò con le braccia a mezz’aria, in ascolto, ed eccolo di nuovo. Il suono. Il suono che non avrebbe mai dovuto udire.

Din.

Din.

Diiiiiiiin.

Le note acute della campanella gli fecero sollevare, dolorosamente, ogni pelo del corpo e provò un picco di terrore che gli fece dilatare le pupille e seccare le fauci.

La campanella della sala autopsie stava suonando.
No. Qualcuno stava suonando la campanella della sala autopsie.
Qualcuno che doveva essere morto.

Din.
Din.
Diiiiiiiin.

La campanella lo chiamava.

Gli tremavano le mani e anche le viscere. Che fare? Fuggire?
No, non poteva.

Forse Lei lo stava aspettando per ballare davvero un ultimo valzer, prima di portarlo con sé nell’aldilà? Con un gelido bacio gli avrebbe succhiato il soffio vitale e la mattina dopo avrebbero trovato anche lui sul lettino di metallo. Cadavere già freddo.

No! Doveva smetterla, aveva troppa fantasia. Doveva darsi un contegno.

Ma intanto la campanella suonava, suonava, suonava.
Non avrebbe smesso finché non fosse sceso a vedere.

Impugnò il tomo di patologia e lo tenne stretto al petto con entrambe le braccia, come se quel talismano di scienza potesse alzare una barriera tra lui e l’orrore.

Scese lentamente i gradini di pietra, arrotondati da migliaia di passi e, con il cuore in tumulto nel petto, diede una spinta col piede alla porta della sala autopsie.

Din.
Din.
Diiiiiiiin.

Due occhi brillarono nella penombra e si fissarono su di lui.
I due occhi verdi di un gatto che giocava con la campanella, facendo le fusa sul petto della bella signora morta.

 

Questa è una storia vera ed è accaduta così come ve l’ho narrata, o quasi.
E chi non ci crede, potrà cercare l’antico edificio in una sera di nebbia e scendere i gradini, se ne ha il coraggio…

 

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