Racconto di Martina Mangili

 

La giornata è splendida: il cielo azzurro terso e il sole già caldo di prima mattina. Il cane, eccitato da chissà quale odore, è partito di corsa e ho perso la presa sul guinzaglio. Solo dopo averlo recuperato mi sono accorta che era finito tra le piante grasse e una miriade di spine invisibili mi si è infilata nella mano destra. Risalita a casa arrabbiata insieme al cane euforico, ti ho sgridato per quelle tue piante grasse, che son brutte e fanno pure male. Avrei preferito un giardino di fiori, da poter mettere in un bel vaso, come ti avrò detto mille volte.

La loro è una bellezza discreta, mi hai detto tu sorridendo, nascosta dietro le spine e in forme appena abbozzate, plasmate dalla mano di un dio inesperto.

Hai preparato in silenzio un catino di acqua calda profumata per immergermi la mano ma l’acqua si è sparsa sul pavimento insieme ai tuoi ultimi respiri che sono scivolati via. Via da me.

All’ospedale non mi hanno fatta entrare, dicono che sei morto dopo poche ore ma che per l’emergenza in atto non è stato possibile chiamarmi. Una vita insieme finita così, senza un addio. Per l’emergenza in atto.

Al funerale massimo 50 persone ma io non me ne ricordo nessuna. Cercavo te per chiederti chi fossero tutte quelle persone, io che non mi ricordo mai i nomi e le parentele; cercavo te per ridere di nascosto del canto stonato delle pie donne della chiesa, io che ho sempre intonato il mio canto al tuo; cercavo te per scambiare un segno di pace, io che, quando ti ho scelto, ho dichiarato guerra alla solitudine. 

Cercavo te e non trovavo più il tuo bel viso finché non l’ho riconosciuto in una foto sulla bara davanti all’altare. Chiusa. Era quello il tuo volto? Da vivo era diverso, più morbido, cedevole e caldo.

Se ho capito bene nella bara non c’è più il tuo corpo ma un vaso di ceneri. 

Invece del vaso di fiori che avrei sempre voluto, mi ritrovo a stringere un pugno di cenere e un duro vaso di pietra.

È sera e sono sola. Il vaso è sulla libreria, ha una forma essenziale, è freddo al tatto ed è pesante, fatto di un materiale che ricorda la pietra grezza o il cemento. Se ci fossi stato, saresti scoppiato a ridere quando l’uomo del forno crematorio mi ha fatta firmare per il ritiro e mi ha detto che non posso spostare il vaso da casa perché equivarrebbe a furto di salma o rapimento. 

Ho salutato il vaso e sono scesa a far fare pipì al cane, che ti aspetta tutto il giorno davanti alla porta, vicino alle tue pantofole che hanno la forma e l’odore dei tuoi piedi.

Sono scesa senza di te, ma alla luce della luna ti ho ritrovato. Non sei in quel freddo vaso ma sei qui, tra le tue piante grasse, tenera carne verde pulsante di linfa protetta da spine appuntite.
Sei qui, tra i lunghi calici bianchi che mi offrono i cactus tondeggianti, fiori delicati che vivranno giusto il tempo di ammirarli per poi appassire.
Sei qui, tra le gemme infuocate della portulaca che si serrano pudiche all’ultimo raggio di sole e si schiudono per salutarne il ritorno, ogni mattina.
Sei qui, tra i lunghi steli dell’aloe azzurrata che custodisce tra le spine il suo prezioso balsamo. 

E mentre il cane fiutava chissà, forse il tuo odore sull’innaffiatoio vuoto, ho stretto forte la mano destra e ho sentito il dolore per le tue spine che mi sono rimaste nella carne.

 

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